Cari lettori, care lettrici,
Oggi 21 Marzo, è arrivata la Primavera e no, come al solito non sono pronto.
Sono abbastanza sicuro che dopo 21 episodi di questa newsletter avrete forse capito che ho un carattere autunno/inverno. Qualche giorno fa uscendo di casa, ho sentito nitidamente l’odore della primavera e ho avuto un moto di ansia.
Poi ho aperto i social ed era tutto un progettare rinnovare vite sociali, scarpe aperte, aperitivi, mare. Oddio.
Capiamoci. La primavera per il mio io fotografico che vive nel corpo di un umano del tardo capitalismo è una manna dal cielo: c’è luce e si può fotografare dopo il lavoro. C’è quella bella sensazione di passeggiare lungo una strada di campagna col sole radente, l’erba dorata e il profumo di fiori. Però anche quella sensazione di essere un paria sociale se non vai a fare aperitivo al mare o se alla camicia di lino preferisci il maglione di lana islandese.
Però ecco, andiamo per gradi, che io ancora devo capire come si esce dalla mia personale fortezza della solitudine. Non ho nulla contro voi abitanti delle stagioni calde, anzi vi ammiro, però ecco sono più simile al classico weirdo statunitense che si costruisce il bunker dentro casa perchè pensa che l’apocalisse sia giusto dietro l’angolo. Ho bisogno dei miei tempi per assaporare la vita e ai cambi di stagione devo arrivarci per gradi. Senza contare che l’estate è dietro l’angolo, estate che, come ogni anno, vorrei passare in capsula per l’ipersonno.
Chi vi scrive cercando di capire a che cazzo serva ancora il cambio orario nel 2024 è Alessandro Chiariotti, e questa è Pentaprisma, via!
Progetti
Nonostante la mia fruizione della fotografia sia prevalentemente online, a volte mi capita di andare a vedere la fotografia dal vivo, come dovrebbe essere.
È il caso della presentazione di “How To Make Jam” di Vaste Programme, presso la Libreria Marini, l’amorevole libreria fotografia di quartiere. Il progetto nasce nell’ambito del bando Strategia Fotografia, organizzato dalla pinacoteca Levis di Chiomonte. Tutti gli scatti che fanno parte del progetto sono stati effettuati nella villa del pittore G. A. Levis, ormai inagibile e invasa completamente dai rovi di mora, che, anno dopo anno, si fanno sempre più pervasivi e inarrestabili. Il collettivo Vaste Programme ha quindi sfruttato la caratteristica preponderante della villa, le more, per realizzare le fotografie.
Si può stampare con le more? Le more sono un materiale fotosensibile? Ebbene sì, non lo avrei mai pensato ma sì. In tutto ciò c’è lo zampino dei geniali ragazzi di Studio Bayard che, grazie agli UV che solo l’estate italiana sa dare, hanno creato delle magnifiche stampe a base di…succo di mora.
Inutile dire che le stampe sono meravigliose e che le sottili gradazioni di viola e rosa catturano lo sguardo e funzionano perfettamente con l’idea del progetto di documentazione della villa di Levis. La tecnica utilizzata si chiama “antotipia” e fa parte di tutto un bagaglio di tecniche di stampa “antiche” che Carlotta e Giorgio di Studio Bayard portano avanti con costanza e amore.
Una cosa molto interessante che ho scoperto è che stampe di questo tipo sono difficilissimi da fissare, il che le rende soggette a sbiadire inesorabilmente del tempo. Questo è un aspetto molto intrigante, che fa riflettere sul ruolo della fotografia, che noi diamo per scontato essere immutabile e permanente, ma che in realtà non è proprio così.
Ispirazioni
In questi giorni ho ricominciato, anzi diciamo che ho fatto un re-listenign (?) di uno dei miei podcast preferiti, The Contact Sheet, di Kyle McDougall. Vi starete chiedendo, ma chi è che si ascolta DUE volte un podcast di decine di episodi di un’ora e quaranta, che parla di ispirazione? Io, ecco chi. Forse ho un problema, chissà.
Uno degli episodi che non posso fare a meno di ascoltare a ripetizione è quello con la fotografa ritrattistica e documentaristica Rhombie Sandoval (qui il suo sito internet).
Ho pensato molto al perché io entri in risonanza con questo episodio e con Rhombie. Ad un primo sguardo la sua fotografia potrebbe essere scambiata per “semplice” ritrattistica, ma, leggendo anche le descrizioni delle sue foto e ascoltando le sue parole nelle interviste, si capisce quanto non stiamo parlando di “ritrattistica”, ma di una sorta di “Reportage Interiore” (oggi è giornata di neologismi arditi). Rhombie usa la fotografia per connettersi con le persone: la maggior parte dei ritratti sono di persone incontrate casualmente in strada.
Non ci vuole molto a rendersi conto di quanto sia difficile fermare una persona in strada e dirle “vorrei farti un ritratto”. Specie in zone dove le persone si aspettano tutto fuorché una persona con una fotocamera. In rari casi potrebbe anche essere pericoloso. In tutti i progetti di Rhombie vediamo narrazioni genuine, veraci, a volte anche piuttosto dirette, di gruppi di persone e comunità che vivono ai margini di quello che noi consideriamo il “vivere normale”.
Credo di essere attratto dq questo tipo di fotografia proprio perché è una cosa ESTREMAMENTE lontana dal mio approccio. Io, che ho paura anche di farmi vedere in pubblico con una camera per il timore di venire redarguito, insultato o picchiato. Qualora ascoltaste il podcast, vi rendereste subito conto di come lo scatto sia l’1% di queste fotografie e di come il 99% sia composto da una lotta interna per strappare un millimetro alla comfort zone e per creare un rapporto ematico con il soggetto. Il fine qui è la connessione, il racconto, la foto in questi casi è solo il documento che attesta tutto ciò, rifuggendo da quell’abitudine orribile, di cui parla anche Emanuele nella sua ultima newsletter (qui sotto), di trattare le persone come feticci e oggetti, molestando ragazze per strada per poi scattare ‘ste foto orribili con lo sfondo smarmellato e i colori fluo.
Prima o poi ci riuscirò. O forse no, ma non è questo il punto. Il punto è esercitare la fotografia come una forma di connessione col prossimo.
Strumenti
L’altro giorno scrollando Instagram mi sono imbattuto in curiosa foto che raffigurava un saluto composto di…verdure. Visto il livello di contenuti presenti sulla piattaforma non gli ho dato tanta importanza. finché non ho visto l’autore…Stephen Shore, ovvero uno dei fotografi più famosi degli anni 70’. Di Shore e del suo rapporto con il paesaggio e la cosiddetta New Topography ne avevo parlato in precedenza (qui sotto il post), ma non mi ero mai soffermato sul tipo di lavoro che portasse sui social.
È stata quindi una sorpresa scoprire che Shore ha usato Instagram nel modo in cui avevo pensato di usarlo io, nel lontano 2015. Al tempo pubblicavo solo lunghissimi album di foto su Facebook -ma perché lo facevamo?-, quindi avevo pensato di utilizzare Instagram non per caricare i miei scatti, ma per scattare solo ed unicamente su smartphone. La cosa poi non è andata proprio così e presto mi sono ritrovato ad inseguire numeri e reach, ma Stephen Shore, che invece è un artista ed un creativo vero, ha portato avanti questo progetto, caricando una sua foto al giorno, rigorosamente scattata su smartphone. Dopo 10 anni e circa 2400 immagini, Shore ha abbandonato Instagram. Lo ha abbandonato per lo stesso motivo per cui l’intera comunità fotografica lo critica, pur rimanendo -me compreso- nel recinto di questa strana sindrome di Stoccolma: lo spam, il feed gestito da un algoritmo, il meccanismo infernale dei reel e dello scrolling infinito, i suggerimenti quantomeno discutibili operati dall’app. Un passaggio molto interessante è questo:
A couple of days ago I asked Perplexity, the AI search engine, how to cancel my IG account. After walking me through the various steps it added that people who quit Instagram could “potentially experience positive effects on their mental health and overall well-being”, demonstrating not only Artificial Intelligence, but Artificial Wisdom.
Se anche uno dei più grandi fotografi del mondo, e persino una IA si sono resi conto di quanto sia dannoso, anche e sopratutto a livello creativo, stare ore e ore al giorno su Instagram, non è forse il caso di ripensare alla centralità dei Social nelle nostre vite, artistiche e non?
Gigliola cinguetti era troppo telefonata. ergo:
Bene, siamo alla fine per questa newsletter. Fatemi sapere che ne pensate!
Come sempre, per commenti, opinioni, insulti, frizzi e lazzi non esitare contattarmi per e-mail o nella sezione commenti di questa Newsletter.
Se non lo fai già, seguimi anche su Instagram.
Ci sentiamo tra due settimane! Viva!
Alessandro Chiariotti.
Tanti spunti di riflessione in questa lettera! Complimenti Alessandro e grazie per avermi fatto scoprire Rhombie, acuto osservatore delle dinamiche umane. Le sue foto sono profonde, lasciano emergente il fattore umano e la sua storia, dovrò documentarmi di più prossimamente!
In un mare di contenuti superficiali riesci a “mettere a fuoco” sempre argomenti interessanti e non battuti dagli algoritmi social! Questo ti fa molto onore. Al prossimo giovedì !
fantastica questa puntata di Pentaprisma!
Sai che anche io, quando sono in auto, riattacco The Contact Sheet?
Ha portato veramente grandi testimonianze, sopratutto non mainstream. Nicchia ottima.
Lo zio Shore, ha perfettamente ragione. I tempi sono cambiati, e mi sembra quasi di vivere un ciclo dove stiamo tornando ai tempi di Stephen ma con strumenti evoluti. Loro ci sono riusciti, col tempo. Noi potremmo fare di più, ed invece.. ci perdiamo con l'engagement. It's over, alla prossima!